(Comunicazione green: funziona se è veritiera e trasparente)
Cresce la sensibilità dei consumatori verso i temi legati alla sostenibilità e, di conseguenza, l’attenzione nei confronti delle diverse componenti di un prodotto e delle sue caratteristiche eco-friendly (packaging compreso). Un’attenzione che si accompagna alla richiesta di comportamenti adeguati, da parte delle aziende che si dichiarano sensibili al tema dell’ambiente, sia in termini di trasparenza nella gestione delle informazioni sulla produzione e provenienza delle materie prime utilizzate sia dell’impegno sociale e ambientale che stanno concretamente portando avanti. Questi nuovi comportamenti e tendenze di mercato hanno stimolato lo sviluppo della green communication.
Oggi le scelte di acquisto vanno a premiare i brand che si occupano maggiormente di eco-sostenibilità, i quali, di conseguenza, puntano sempre di più su strategie comunicative che mettano al centro il bene del pianeta, sottolineando i propri contributi e le proprie responsabilità in termini di prodotti e modelli di business a basso impatto ambientale. Con un rischio, però: quello di alimentare il fenomeno del greenwashing, l’ecologismo di facciata. In altre parole, l’uso distorto della sostenibilità a fini promozionali. Il termine è un neologismo inglese, nato dalla combinazione tra le parole green – colore da sempre simbolo del movimento ambientalista – e whitewashing che significa imbiancare e, in senso figurato, nascondere qualcosa con una mano di bianco (e, nello specifico, di verde). Una pratica ingannevole, usata come strategia di marketing da alcune aziende per evidenziare un impegno – fasullo – nei confronti dell’ambiente, allo scopo di attirare l’interesse dei consumatori attenti alla sostenibilità.
«In realtà, il consumatore – afferma Rossella Sobrero, presidente di Ferpi (Federazione relazioni pubbliche italiana) – sta diventando più diffidente rispetto al passato: messaggi come, per esempio, “100% sostenibile” che non forniscono prove rispetto a questa affermazione insospettiscono le persone. Parallelamente, è importante convincere le imprese, e i comunicatori, che sono da evitare dichiarazioni di principio rischiose se alle spalle non ci sono iniziative concrete. Difendersi dal greenwashing è interesse di tutti. Si tratta di una forma di concorrenza sleale che può far dirottare investimenti da attività sostenibili verso altre che non lo sono».
Quando la sensibilità ai valori ambientali entra in un progetto di comunicazione bisogna stare molto attenti a non creare effetti boomerang, perché cavalcare in modo ambiguo l’onda ecologista può produrre danni notevoli. La pensa così Matteo Scarabelli, responsabile della comunicazione di Cariplo Factory. «Oggi il pubblico – spiega – non solo è molto più attento, ma anche più informato: la rete è un mezzo potentissimo per condividere esperienze e scelte di acquisto in modo dettagliato e favorire così lo sviluppo di un consumo critico. Non siamo ancora usciti dal tunnel del greenwashing, ma certamente stanno cambiando alcuni modelli: sta crescendo, cioè, un approccio strategico alla sostenibilità e sono sempre di più le figure apicali delle aziende che si spendono su questi temi. In pratica, ci si lascia alle spalle la prospettiva esclusivamente tattica, basata sulla pubblicità del prodotto, per concentrarsi su quelli che sono i valori che l’azienda porta avanti, sulla sua visione complessiva di sostenibilità che va dalla produzione a basso impatto ambientale, all’impegno ad incentivare lo smart working per favorire le politiche di mobilità.
Nel marzo del 2014, la 58° edizione del Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale pubblicata da Iap (l’istituto dell’autodisciplina pubblicitaria) ha imposto criteri di trasparenza e standard di correttezza in materia di comunicazione green, introducendo il vincolo di verificabilità scientifica dei messaggi promozionali. Da allora, tuttavia, la tendenza di molte aziende a diffondere claim ecologici ad effetto, ma generici sul piano dei contenuti, non si è affievolita più di tanto. Il marketing green ha continuato ad alimentarsi di dichiarazioni altisonanti che raccontano solo belle intenzioni con frasi vuote e fuorvianti.
«Le persone sono bersagliate da contenuti molto simili– dichiara Lorenza Bassetti, fondatrice e Ceo della società di comunicazione Ad Mirabilia – e per distinguersi è fondamentale essere incisivi e portare sempre esempi concreti. Quello che può fare la differenza, è la storia stessa dell’azienda e il suo impegno reale verso la sostenibilità. Una società di comunicazione deve guidare le imprese o le istituzioni a utilizzare le parole nel modo più preciso e corretto, senza proclami che non trovano riscontri effettivi nella realtà. Quello della sostenibilità è un tema complesso, salito improvvisamente alla ribalta senza che vi sia stata sufficiente divulgazione scientifica a riguardo. Molte opinioni poggiano su convinzioni più emozionali che informate e spesso generano banalizzazioni, come l’idea che il bio sia la soluzione di tutti i problemi. Secondo una ricerca del nostro partner Ipsos, ancora oggi il 67 per cento dei consumatori intervistati dichiara che è difficile riconoscere le aziende realmente green. Un chiaro segnale di quanto la comunicazione vada ulteriormente rafforzata e resa sempre più chiara e tangibile».
In Italia per la prima volta un giudice ha condannato un’azienda per la pubblicità di un prodotto definito sostenibile. Si tratta certamente di un passo importante verso un nuovo approccio alla comunicazione ambientale. Il 25 novembre del 2021 il Tribunale di Gorizia ha accolto il ricorso presentato dalla società Alcantara nei confronti dell’azienda Miko, che commercializza il materiale Dinamica, una microfibra dall’aspetto simile al camoscio, impiegata soprattutto nel settore delle automobili, ma anche nell’arredamento e nella moda. La decisione ha riconosciuto che le espressioni come “scelta naturale”, “amica dell’ambiente”, “microfibra ecologica” erano da considerarsi pubblicità ingannevole.
Nell’ordinanza, il Tribunale di Gorizia ha citato l’articolo 12 del Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale, secondo cui «la comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili».